20 gennaio 2011
L’Egitto e il profumo del gelsomino tunisinodi Azzurra MeringoloIL CAIRO. L'eco della rivolta di Tunisi raggiunge allarma il presidente Mubarak. Le differenze fra i due paesi. Islamismo, disoccupazione e gli interessi strategici degli Stati Uniti.
Da decenni il Cairo è sotto una cappa di inquinamento, corruzione e repressione che soffoca ogni giorno di più i suoi cittadini.
Nell’ultima settimana a questi odori sembra essersi aggiunto un leggero profumo di gelsomino proveniente dalla vicina Tunisia che, mischiandosi ai problemi che rendono l’aria della città irrespirabile, ha portato coraggio a quanti da anni sperano nel tracollo del regime egiziano.
Incollati agli schermi televisivi che trasmettevano gli eventi di Tunisi, gli egiziani hanno capito che anche le più tremende dittature hanno una fine e che anche per quella egiziana, ancor più vecchia di quella tunisina, potrebbe essere iniziato il conto alla rovescia.
Non si sa con certezza cosa accadrà, ma nelle strade del Cairo il motto è solo uno: “O’balna, O’balna”, ovvero “speriamo di essere i prossimi.” L’esempio tunisino ha ridato coraggio a tutti quegli attivisti che da anni si battono per sradicare il regime e non è quindi da escludere che anche al Cairo ci si avvicini a un momento di cambiamento.
Sale a nove il numero degli egiziani che, emulando il gesto del tunisino Mohammed Bouazizi, nei giorni scorsi si sono dati fuoco al Cairo e ad Alessandria per protestare contro le loro misere condizioni di vita.
Tra di loro si registra già la prima vittima, il venticinquenne Ahmed Hashim al Sayed, incendiatosi per disperazione: non riusciva a trovare lavoro.
Vedendo il susseguirsi di tentati suicidi e il continuo paragone agli eventi di Tunisi, il ministro della Cultura Farouk Hosni ha cercato di sdrammatizzare la situazione.
“Darsi fuoco sembra essere diventata l’ultima moda del mondo arabo” ha dichiarato al quotidiano liberale al Misry al Yaoum, sottolineando che non esiste alcuna relazione tra i gesti di questi uomini e quanto accaduto in Tunisia, dove la rivolta è iniziata proprio in questa maniera.
“A differenza della Tunisia – ha concluso Hosni - in Egitto esiste libertà di espressione.”
Le parole del ministro non convincono gran parte della popolazione che sa bene non solo che in Egitto non esiste alcuna reale libertà di espressione, ma che i problemi che hanno motivato la rivolta dei vicini tunisini sono gli stessi che attanagliano il loro paese.
La corruzione è alle stelle, ogni istanza di opposizione non riesce a trovare un minimo spazio legale nel quale agire, il divario tra ricchi e poveri cresce ogni giorno di più e la disoccupazione colpisce soprattutto i giovani, fetta importante della società.
Anche se la gravità della situazione è evidente, il regime continua a negare l’esistenza di problemi strutturali e ogni volta che si trova davanti a un incidente lo giustifica come un episodio isolato, non come una denuncia contro un sistema vecchio, stagnante e malato.
Il presidente Hosni Mibarak, campione di moderatismo e grande alleato dell’Occidente che ne apprezza la capacità di contenere l’Islam politico, ultimamente ha dimostrato di non riuscire né a garantire la sicurezza dei suoi cittadini - basti pensare a quanto accaduto ad Alesandria la notte di Capodanno - né a gestire situazioni che possono sfuggire di controllo.
Anche se ufficialmente il regime nega ogni possibilità di contagio proveniente dalla Tunisia, a porte chiuse ci si sta adoperando per evitare che questo accada o per bloccare, qualora scoppiasse, ogni scintilla di cambiamento, sia esso pacifico o rivoluzionario.
Tunisi ha insegnato qualcosa anche ai vertici del governo egiziano, che hanno capito che le promesse fatte a rivoluzione scoppiata non convincono una massa in fiamme che vuole solo il rovesciamento dell’intero sistema.
Per mettere le mani avanti, nel fine settimana scorsa alcuni membri del partito del presidente Hosni Mubarak si sarebbero incontrati con rappresentanti dei sindacati dei lavoratori per implementare piani preventivi in grado di evitare lo scoppio di proteste di massa.
Insieme al primo ministro Ahmed Nazif avrebbero convenuto che nell’immediato non ci sarebbe stato alcun aumento delle tasse e dei prezzi di beni di prima necessità.
Temendo il peggio poi, secondo quanto rivelato da Al Jazeera, già sabato scorso il presidente Hosni Mubarak avrebbe avuto un incontro a porte chiuse con i membri del Consiglio nazionale di difesa.
Obiettivo dell'incontro, l'implementazione di misure preventive per evitare ogni minimo gesto che possa provocare i cittadini.
A tutto ciò si è sommata la propaganda mediatica dei principali organi comunicativi del regime, che hanno elogiato i successi della politica economica del presidente, sottolineando che in Egitto il governo sta sovvenzionando generi alimentari e che, anche per questo, quanto accaduto in Tunisia non si ripeterà al Cairo.
Il ministro degli Esteri Ahmed Abu Gait ha descritto come privo di senso ogni paragone tra i due paesi. “Ogni nazione vive le proprie circostanze e i paesi stranieri dovrebbero smetterla di interferire nelle questioni interne egiziane”ha dichiarato ad Al Misry Al Yaoum.
Quali frutti la rivoluzione del gelsomino porterà in Egitto non è ancora chiaro: nel paese regna una certa ambivalenza perché si sa bene che, anche se condividono gli stessi problemi, gli egiziani non sono i tunisini e il Cairo non è paragonabile a Tunisi.
Chi vive sulle sponde del Nilo è terrorizzato dalla reazione della polizia e, qualora scoppiasse, una rivoluzione di strada avrebbe effetti devastanti.
Sono in molti quindi a sperare in un processo di riforma pacifico, a cominciare dalle forze islamiste che temono il precipitarsi degli eventi.
I ministri di Al Azhar, massima autorità religiosa egiziana, hanno severamente condannato i gesti degli uomini che hanno cercato di darsi fuoco e hanno comunicato ufficialmente che per prevenire lo scoppio della rivoluzione “il governo deve abolire lo stato di emergenza - in vigore dal 1981- sciogliere il parlamento, indire elezioni libere e democratiche ed emendare la Costituzione per garantire che le prossime presidenziali siano libere e competitive.”
Anche Mohammed El Baradei, ex segretario generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica e possibile sfidante del raís egiziano alle prossime presidenziali, spera in processo pacifico.
“Quanto è accaduto in Tunisia non mi sorprende e dovrebbe servire da lezione alla classe politica egiziana e a quanti in occidente sostengono questo regime.
È ora di implementare riforme economiche e sociali perché qualora le condizioni di vita dei cittadini non dovessero migliorare un’esplosione come quella tunisina è molto probabile” ha detto al britannico The Guardian.
Per evitare che si crei una situazione instabile ed esplosiva come quella tunisina è necessario organizzare la riforma “usando, se possibile, strumenti già presenti all’interno del sistema egiziano, come la petizione per il cambiamento che il mio Movimento per il cambiamento sta portando avanti da mesi”.
Il governo deve mostrare di aver capito i problemi dei cittadini e di volerli risolvere.
“Se continua a mantenere chiuse le porte del cambiamento pacifico - ha concluso - non dovrà sorprendersi nel vedere le scene delle strade tunisine anche da noi. ”
Non tutti condividono questa linea e alcuni attivisti accusano El Baradei di non essere in grado di conquistare le strade. Le prime critiche sono arrivate da Hossam El-Hamalawy, affermato giornalista e blogger dell’opposizione.
“El Baradei vuole un cambiamento pacifico e graduale, qualcosa che non sradichi il regime completamente. Gli egiziani invece hanno richieste più radicali di quelle che lui ha presentato: non vogliono solo un nuovo parlamento ed elezioni democratiche, le loro rivendicazioni riguardano il pane e il burro da portare a casa tutti i giorni.”
Attenti a non fare troppo rumore, diversi gruppi di opposizione hanno organizzato una manifestazione di strada al Cairo per il 25 gennaio. In quell'occasione renderanno pubbliche le loro rivendicazioni.
“Speriamo che sia una manifestazione enorme - ha dichiarato Ahmed Salha, uno degli organizzatori. Non sappiamo se sarà questo il luogo nel quale si produrrà la scintilla necessaria che porterà al rovesciamento del regime, ma mostreremo al mondo intero che siamo pronti a lottare per la nostra democrazia.”
Cosa accadrà dopo il 25 gennaio non é chiaro a nessuno. Nei salotti internazionali il regime, fortemente sostenuto dagli Stati Uniti e da altre potenze occidentali, continua a giocare la carta dell’Islam politico dicendo ai suoi alleati che qualora scoppiasse una rivoluzione sarebbero gli Ikhwan - i Fratelli Musulmani- l’unica forza in grado di andare al potere.
Anche se le istanze islamiste sono decisamente più forti in Egitto che in Tunisia, la rivoluzione del gelsomino ha mostrato che la svolta islamista non è l’unica possibile.
Importante sarà anche l’atteggiamento dell’amministrazione statunitense, che se da una parte sembra aver digerito gli eventi tunisini, dall’altra sa che la battaglia egiziana è di tutt’altra importanza.
L’Egitto è un paese strategico per gli interessi di Washington nella regione, in primis per il ruolo di mediatore che gioca nel processo di pace.
“La presidenza Obama non può pensare nemmeno per un secondo di perdere uno dei suoi più importanti pilastri nella regione - si legge su un editoriale di un giornale di opposizione. Obama non accetterà di vedere l'Egitto passare nelle mani dell’opposizione, soprattutto sapendo che questa include i Fratelli Musulmani.”
La Repubblica