Niente è come prima. Neanche a TahrirMarch 18th, 2011 - 11:20 amE’ stata la prima tappa di un pellegrinaggio laico nel paese che amo di più. Non poteva non essere altrimenti. Sono andata a piazza Tahrir sicura di esser delusa. Finito il momento eroico. Finita la rivoluzione delle masse che premono sul regime e lo fanno cadere. Finita la mini-repubblica di Tahrir, i visi incredibili dei ragazzi e del popolo che ha vissuto nella piazza della Liberazione.
Sono arrivata, volutamente, passando attraverso le strade deserte attorno all’ambasciata americana. Volevo vedere la reazione dei soldati egiziani, sui loro blindati, gli stessi che abbiamo visto immortalati da Al Jazeera su piazza Tahrir. Gentili, alcuni più fermi, altri no. Tutto (quasi) normale, nel tipico paradosso egiziano. Blindati, soldati, e – allo stesso tempo – i loro pantaloni stesi sui blindati, per asciugarsi.
Eppure, il Cairo non è più quello di una volta. Sembra, da un lato, essersi risvegliato da una sonora sbornia. E dall’altra, questa strana liberazione è dovunque, negli infiniti piccoli segnali che saltano agli occhi di chi il Cairo l’ha vissuta in altri anni, e l’ha sempre seguita, come si segue una persona cara.
A piazza Tahrir, al tramonto, le coppiette occupano tutto il grande spiazzo sotto il Mogamma, il palazzone del ministero dell’interno. Di tanto in tanto, tra le panchine e i visi innamorati delle coppiette vestite con l’abito buono, come ci si veste quando si va all’appuntamento col proprio amore, si scorgono i segni della rivoluzione. Perché la rivoluzione è diventato anche un piccolo business, come all’entrata dello stadio. Bandiere, bandierine, stickers, magliette, i gadget della Thawra stanno dando da vivere alle piccole famigliole poverissime che mettono su banchetti o, ancor più spesso, stendono un lenzuolo per terra per appoggiarci la mercanzia. Un pound uno sticker col 25 gennaio, quello che vedi – percorrendo la tangenziale – su una buona parte delle macchine che ti scorrono accanto. Sticker grandi con le facce dei martiri della rivoluzione, i ragazzi di Tahrir, sticker piccoli con gli slogan.
Per il resto, Tahrir sembra uguale a prima. Traffico (un po’ di meno, a dire il vero, rispetto al solito), negozietti, casino. Poi, all’angolo dell’ingresso storico a downtown, verso piazza Suleiman Pascia, ci sono i crocicchi. E i crocicchi ti dicono che tutto è diverso, impercettibilmente diverso. Ci sono sei o sette capannelli, mentre i passanti sciamano, un ragazzo sta seduto a terra per lavorare al computer, i ragazzini vendono i gadget della Thawra. I crocicchi della politica. Non si parla di calcio, si parla di costituzione, proprio mentre noi facciamo fatica a ricordare la nostra, meravigliosa carta costituzionale. Al Cairo, l’argomento di cui parlano tutti, dovunque, è la costituzione. Se valga la pena approvare i cambiamenti costituzionali decisi dal comitato che il Consiglio supremo militare ha creato, votando domani SI al referendum che segnerà il primo punto fermo della transizione. O se invece non valga la pena fare qualche cambiamento, e se sia meglio, per la salute della democrazia egiziana, fare elezioni parlamentari e far nascere una nuova costituzione. Per evitare, anche, una controrivoluzione strisciante che mostra qualche segno.
La discussione coinvolge tutti, coinvolge il popolo che si è visto a Tahrir. Spacca che le stesse divisioni politiche, è trasversale e sorprendente. I crocicchi non sono formati solo dai ragazzi, ma dal classico indistinto popolo del Cairo, lo stesso che si vede per le strade, mentre fa spesa, torna a casa, svolge i suoi doveri quotidiani. E che l’aria sia diversa, lo dice anche che nel centro di uno di quei capannelli ci fosse una ragazza, il suo velettino color turchese, che arringava la piccola folla. Il suo crocicchio formato in massima parte di uomini. Il Cairo è cambiato. L’Egitto è cambiato. Anche se Tahrir non è più la mini-repubblica.
Per averne la conferma, basta andare a meno di un chilometro di distanza, passando su quel ponte ormai storico di Qasr el Nil (il pellegrinaggio sui luoghi della rivoluzione è solo all’inizio…) e raggiungendo l’Opera, per anni teatro delle cerimonie del regime e della cultura del regime. Regno di Farouk Hosni, che ci faceva anche le sue personali di pittura. Regno di quello che il suo ministero decideva, frequentato da quei clientes del regime che dovevano farsi vedere nelle occasioni conviviali. Ieri, in quello stesso posto, c’è stata un’assemblea a cui hanno partecipato almeno 700 persone, di tutte le età, piccola e media borghesia egiziana. Facce – mi hanno detto – che a Tahrir non si erano poi viste tanto.
700 persone, sedute, in piedi, in quel disordine assembleare eppure composto dei momenti importanti della storia di ogni paese. Una mostra fotografica allestita accanto al grande cortile coperto testimoniava la rivoluzione a Tahrir, i visi a Tahrir. Per non dimenticare che Tahrir c’è stata. Sul palco, Alaa el Aswani e altri tre intellettuali egiziani di mezza età, poi raggiunti dall’ingegner Mahmoud Hamza, un altro degli esponenti della cultura contro il regime. Nel teatro del vecchio regime Mubarak, a parlare di come uscire definitivamente dal nizam, dal regime. Il pubblico era lì a sentir parlare non di calcio né di romanzi, ma di costituzione. Dostour. Costituzione.
Non è stato, però, questo, l’elemento commovente di una serata particolare. Bensì le decine di ragazzi in fila, davanti a un microfono. Attendevano il loro turno per poter parlare. E non per porre domande ad Alaa el Aswani. Volevano esporre le loro idee, come protagonisti della rivoluzione. Con un piglio, una determinazione, una compostezza e – anche – una freddezza che commuovevano nel profondo. Mentre il pubblico, lungi solo dall’ascoltare, pensava, rifletteva, applaudiva, dissentiva.
Il Nuovo Egitto è reale. Non è stata solo una ventata rivoluzionaria andata in onda a Tahrir. La libertà la si avverte ovunque. Ma è una libertà che tutti stanno introiettando, digerendo, elaborando.
Il diario è solo all’inizio. E devo digerire anch’io. Ya Masr Gedida, enti gamila. Il Nuovo Egitto è veramente bello. Poi, forse, verrà la delusione. Per ora, gli egiziani pazienti ci stanno insegnando molto.
Invisible Arabs