Abu Omar: io, le donne e il mito di Che Guevara26/6/2007 (7:11)GUIDO RUOTOLO
INVIATO AL CAIROMastica un gamberone. Si ferma, si gira: «E se mi candidassi alle prossime politiche, come indipendente? I partiti sono ormai diventati delle boutique senza principi». «Fish Market», un ristorante chic sul Nilo. Gelo, silenzio a tavola. E con chi? Un seggio a Montecitorio? «No, no. Qui, in Egitto. Non ero nessuno, oggi sono famoso. Al Jazeera, le televisioni satellitari, i media arabi. Sono diventato un campione nazionale, simbolo della resistenza allo strapotere degli americani. Il popolo e gli islamici, i Fratelli Musulmani, mi hanno dato il loro appoggio».
Sospiro di sollievo. Nasr Oussama Mustafa Hassan, alias Abu Omar, sì, lui, il sequestrato (e torturato) più destabilizzante d’Italia, scende in politica. Lo annuncia a tavola, al termine di una lunghissima «confessione»: una serata a parlare di sé, della sua vita, del suo credo, del suo mito - «Osama bin Laden? No, Ernesto Che Guevara» - delle donne e, naturalmente, di quel maledetto 17 febbraio 2003, quando una squadra (mista) della Cia e di italiani lo preleva a Milano e lo trasferisce al Cairo. Dove viene torturato e imprigionato.
Di quel sequestro ormai si sa (quasi tutto), a Milano è in corso il processo e si aspetta la decisione della Consulta sul conflitto di attribuzione sollevato dall’Avvocatura di Stato per conto di Palazzo Chigi, sul segreto di Stato che la procura di Milano avrebbe violato. Di quella storia, tra le mille domande che solleva, ognuno ha dato la sua risposta. Ma su una domanda lui, Nasr Oussama Mustafa Hassan, non è riuscito ancora a darsi una risposta convincente: «Perché proprio io? Me lo chiedo da allora, da quel 17 febbraio di quattro anni fa e, francamente, non sono ancora riuscito a trovare una risposta. Potevano prendere altri fratelli molto più importanti e grandi di me, e invece hanno scelto il sottoscritto. Perché? Certo, per loro io ero una spina nel fianco, no, nulla a che fare con il terrorismo.
Avevo una rivista, "La Verità", diffusa in tutto il Nord d‘Italia, che usciva ogni giovedì. Per semplificare: era una pubblicazione di controinformazione. Navigavo su Internet, guardavo le televisioni satellitari e sceglievo i materiali, notizie di massacri degli americani, il dibattito nel nostro mondo. Li stampavo, fotocopiavo e li distribuivo nelle moschee, per informare i nostri fratelli poveri che non hanno Internet o la parabola satellitare. Aggiungo che nei miei sermoni denunciavo i massacri degli americani. Stop, fine. Non andavo oltre».
Sarà, anche se le intercettazioni che la Procura di Milano ha raccolto e le indagini svolte su di lui (tanto che il gip milanese Guido Salvini ha poi firmato l’ordinanza di cattura nei suoi confronti) descrivono un altro Abu Omar, molto attivo nella rete di sostegno alla Jihad. E poi, nel discorso dell’imam c’è qualcosa del suo passato che non quadra. Per esempio, ai tempi della parentesi albanese (1991-1997). Un passo indietro nel tempo.
Abu Omar, Alessandria d’Egitto: «Mio padre e mio nonno erano attivisti politici del Wafd, il partito di opposizione in Egitto. Appena diplomato diventai un attivista del Wafd. Scrivevo sul giornale del leader, Ayman Nour, finito poi in carcere. Pensavo che i partiti fossero degli angeli e invece mi accorsi che erano dei diavoli. Me ne andai quando nel partito si scatenò una guerra furibonda per la leadership. Finii in carcere nel 1988, sei mesi di torture, in occasione di una delle tante retate di oppositori della Jamàa al Islamiya, ma con loro non ho mai avuto a che fare. Nel 1991 emigro, vado in Albania, chiedo l‘asilo politico, apro un‘attività commerciale, mi sposo, ho due figli, Sara che oggi ha 13 anni, e Omar, 11 anni. I servizi segreti albanesi mi chiedono di lavorare per loro, di fare la spia nel mondo dei miei fratelli musulmani. Rifiuto e loro mi costruiscono un‘accusa falsa: un progetto di uccidere un ministro egiziano in visita a Tirana».
Arriva a Roma e poi a Milano. C’è qualcosa che non quadra nel periodo della sua prigionia. Arrestato, torturato, liberato e poi ancora arrestato. Nel mezzo, offerte miliardarie per tacere, per non confermare la sua storia. Oggi può tranquillamente parlare, denunciare, farsi intervistare («a pagamento, perché così riesco a vivere»).
Fa caldo al Cairo, anche di notte, anche sul Nilo. Quando non è davanti a una telecamera, quando non parla come se recitasse un sermone, che poi è sempre una requisitoria contro gli americani e il governo Berlusconi, Abu Omar riesce anche a incuriosire. Troppo ghiotta l’occasione per non chiedergli di Osama bin Laden, di Al Qaeda e del terrorismo. «Faccio una premessa. Noi egiziani diciamo dei sauditi: “Hanno tanti soldi ma poco cervello“. Bin Laden è un po’ come Berlusconi che scende in politica: ha soldi ma poco cervello. Con i soldi ha creato Al Qaeda, ha messo insieme tutti i mujaheddin ma è stata una catastrofe per i musulmani... l’Afghanistan, l’Iraq... Chi ha pianificato l’11 settembre sono stati gli americani e i sionisti, gli arabi sono stati solo marionette». E dei suoi miti: «Ernesto Che Guevara era un combattente che ha rinunciato a un ministero a L‘Avana per continuare a combattere per le sue idee».
Ecco, le idee. Qual è il programma del candidato Abu Omar? «Mi giocherò tutto sulle relazioni internazionali. Conosco l’Occidente, ho vissuto in Italia. Gli egiziani sanno che sono il nemico degli Stati Uniti, gli islamici mi rispettano e dialogano con me, come in occasione dei miei appelli per la liberazione degli ostaggi occidentali. Quando Al Zawahiri chiede di colpire in Egitto o in Arabia Saudita, i media arabi mi intervistano per esortare Al Zawahiri a non farlo». E delle donne in politica? Abu Omar potrebbe mai accettare che una donna diventasse parlamentare o presidente del Consiglio? «Mai. Sono un gioiello che va protetto, hanno doveri e compiti che derivano dal loro essere fisico, e proprio per questo non potrebbero reggere all‘urto dello stress e degli impegni e delle incombenze dei meeting internazionali, dei vertici, dei viaggi. Quando hanno il ciclo sono nervose, e poi spendono in maquillage e in vestiti. La donna pensa col cuore e non il cervello. I politici non possono permettersi di essere emotivi».
E’ notte. Stazione dei pullman. Abu Omar torna a casa, ad Alessandria. Tre ore di viaggio. Il suo futuro è in politica, a casa, ma il presente è un tentativo disperato di tornare in Italia, a Milano, per partecipare al processo, per ottenere verità e giustizia, e anche un risarcimento miliardario da Silvio Berlusconi e Niccolò Pollari, ex direttore del Sismi. «L‘altro giorno sono andato al consolato italiano ad Alessandria, per il visto. Non mi hanno fatto entrare. Il viceconsole Domenico Vagliamenti mi ha liquidato. Vivo nel limbo, non mi vogliono gli italiani, non mi sopportano gli egiziani che prima o dopo mi arresteranno». A meno che un giorno Abu Omar non avrà l’immunità parlamentare.
La Stampa